PERCHÉ LE MOSTRE CI FERISCONO: L’ARTE NECESSARIA CHE CI RESTA ADDOSSO
- Teresa Perri

- 3 dic
- Tempo di lettura: 2 min
Ci dirigiamo verso le mostre con l’aspettativa di ammirare la bellezza. Desideriamo linee perfette, armonie di colori, soggetti che ci rassicurano.
Eppure, le opere che davvero ci colpiscono, quelle che si imprimono nella nostra memoria emotiva, sono spesso tutt’altro che rassicuranti: immagini che disturbano, ci interrogano e, a volte, fanno male.
La verità è che l’arte che conta non cerca il consenso, ma la necessità. La bellezza è una misura di piacere sensoriale e armonia formale; la necessità, invece, è una questione esistenziale e morale.
Un quadro può essere tecnicamente splendido e lasciarci indifferenti una volta superato l’iniziale stupore, perché non ci ha chiesto nulla. Al contrario, opere come Guernica di Picasso, le serie sull’Olocausto o le tele materiche di Alberto Burri difficilmente vengono etichettate come “belle”. Eppure esercitano una pressione quasi fisica: una forza che ci costringe a confrontarci con aspetti crudi, irrisolti, essenziali dell’esperienza umana.
Non dicono: “Guarda quanto sono bravo a dipingere.” Dicono: “Questo è il mondo. Questa è la sofferenza. Questo è essere vivi.”
L’urgenza dall'arte necessaria
Quando un artista crea un’opera necessaria, non sta decorando una parete: compie un gesto inevitabile.È un tentativo di dare forma a un’idea, a un trauma, a una verità che altrimenti rimarrebbe muta e insopportabile.
Il Grido di Munch, per esempio, non è un bel paesaggio. È l’angoscia universale resa immagine: un urlo pittorico.L’immagine necessaria ci ferisce perché, nel momento in cui la osserviamo, non siamo più spettatori: diventiamo testimoni.
La nostra empatia si attiva. Condividiamo il peso che l’artista ha trasferito sulla tela.
Il vero potere di queste immagini sta nella loro capacità di diventare ferite aperte nel tempo. Molte opere che sfidano gli anni sono quelle che hanno saputo catturare un momento cruciale della loro epoca e dargli una forma visiva non come semplice documento, ma come monumento emotivo.

L’arte che ci ferisce è quella che ci sveglia
Le mostre che ci “feriscono” svolgono un servizio prezioso:ci strappano dall’anestesia della quotidianità. Ci ricordano che l’arte non è intrattenimento o investimento, ma linguaggio radicale, capace di dire ciò che le parole non riescono a catturare.
L’opera che rimane impressa non è quella che ci fa dire «che bello», ma quella che ci fa pensare: «è vero».
Ed è proprio in questo riconoscimento, anche quando fa male, che si trova la sua necessità ineluttabile.









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