L’IMPERFEZIONE COME CUORE DELLA CREAZIONE
- Teresa Perri

- 7 ore fa
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Da generazioni ci hanno insegnato a guardare l’arte come un verdetto impeccabile: un oggetto perfetto, chiuso, nato da un genio che non conosce esitazione. Abbiamo venerato l’opera finita come fosse uno specchio limpido ignorando la tempesta che ribolle sotto la superficie. Ma è tempo di spostare lo sguardo. Di scendere dal piedistallo. Di entrare nella fucina dove l’arte prende fiato, sbaglia, riprova, cade e si rialza. Perché la verità è semplice e radicale: l’arte non è un sostantivo. È un verbo. È tentativo, rischio, ritorno. È un atto vulnerabile prima ancora che un risultato. Il processo non è il prologo dell’opera. È l’opera stessa.

Dietro ogni tela esposta, dietro ogni scultura che sembra immobile nel suo silenzio, c’è un campo di battaglia mentale. L’artista non è un dio che inventa dal nulla: è un essere umano che si fa strada nel caos, sbagliando, cancellando, ripartendo. Ogni sbavatura, ogni accumulo di materiale, ogni esitazione visibile non è un difetto: è una cicatrice gloriosa. È il diario segreto della creazione.
Guardare i Non Finiti di Michelangelo, o gli strati violenti di Bacon, significa assistere alla maestosità del divenire. Non sono opere incomplete. Sono la prova vivente che l’arte è un percorso, non un traguardo.
Viviamo in un’epoca ossessionata dalla pulizia algoritmica, levigata, senza rughe. In un mondo così, l’imperfezione diventa un atto sovversivo. Eppure è proprio lì, nelle crepe e nei graffi, che l’arte ritrova la sua voce più umana. Una scultura perfettamente liscia non racconta niente.
Una tela che mostra il sudore del gesto, invece, vibra. Questo principio attraversa anche il Wabi-Sabi: la filosofia giapponese che celebra ciò che è transitorio, semplice, consumato. Le crepe riparate non nascondono la ferita: la trasformano in significato.
Accettare l’imperfezione non è una resa: è coraggio. È una dichiarazione di resilienza. È capire che il fallimento non chiude la strada la segna. È l’unico modo per spingersi verso qualcosa di veramente nuovo.Perché la perfezione sterile non racconta nulla. La verità, invece, pulsa nel gesto che tenta, sbaglia, insiste.
L’arte rimane uno degli ultimi baluardi dell’umano contro la standardizzazione totale. Non mente sul suo percorso. Non nasconde le sue debolezze. Ci invita all’umiltà: a riconoscere la fretta, l’incertezza, la speranza che l’hanno generata.Solo entrando davvero nel suo processo accettandone gli errori, le deviazioni, le ferite possiamo vedere la bellezza profonda dell’imperfezione.
Perché è proprio lì, in ciò che non è perfetto, che l’opera diventa autenticamente nostra.









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