FABRI FIBRA A PADOVA: L’URLO CHE NON RIUSCIAMO PIÙ A TRATTENERE
- Valentina Bonin

- 4 giorni fa
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C’è un istante, nei live di Fibra, in cui il rap smette di essere industria e torna ad essere ciò che è sempre stato: una diagnosi di sopravvivenza. Come dice in “L’Avvelenata (pretesto)”: «Io canto quando posso, come posso». È esattamente quello che succede quando entra in scena: la voce non chiede permesso, pretende spazio.
Ieri Padova ha ceduto sotto quel peso. Non era nostalgia, non era revival: era un avvertimento. Fibra non ricorda chi eravamo: mostra chi rischiamo di diventare.
Il palco entra come una lama: luci fredde, cuore elettronico, tensione costante. Quando arriva, lo fa senza teatralità. Fibra non parla: incide. E ogni barra sembra confermarlo:
Ogni successo crea un rimorso. Ogni barra è un inventario dei nostri fallimenti.
La folla risponde come chi non ha più nulla da perdere. Le mani alzate non sono coreografia, sono un SOS generazionale. Quando urla «Il telefono ci ha reso tutti pazzi» da Tutti Pazzi, diventa impossibile non sentirsi presi di mira.

Alcuni pezzi arrivano come colpi allo stomaco (“Mio Padre”: «Dentro me so di essere fottuto»), altri come confessioni che non sapevamo di voler ascoltare (“Figlio”: «Al figlio che mai avrò, tieniti stretti gli amici»).
C’è la Milano che ti stritola (“Milano Baby”), il karma che torna a chiedere conto (“Karma OK”), e quel senso di tossicità che Fibra mette a nudo senza filtri: «Sei tossico… e non c’hai un cazzo da dire».
E poi arriva “Tutto andrà bene”: un silenzio diverso, quasi un respiro collettivo. La prova che il rap, quando funziona, non consola — riconosce.
Il concerto di ieri è stato questo: una comunità temporanea, un rito sporco, un incendio emotivo che “non sai se spegnere o attraversare”.
Ieri sera non abbiamo visto un live. Abbiamo visto una resa dei conti.Quella che continuiamo a rimandare ogni volta che torniamo a casa.











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