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LE TRAPPOLE CHE CI COSTRUIAMO

  • Immagine del redattore: Chiara Elanor Carugati
    Chiara Elanor Carugati
  • 3 giorni fa
  • Tempo di lettura: 3 min

La canzone che mi risuonava insistentemente in testa mentre leggevo Mantide, esordio letterario di Cecilia Rita edito da NN Editore, è David di Lorde.


“I made you God ‘cause it was all that I knew how to do”

Mia l’ha reso il suo Dio, Ruben.

Si sono conosciuti al liceo, lui aveva qualcosa dell’animale con una zampa in una trappola, ritratto in un angolo e pronto ad attaccare, che ti convinci di poter essere solo tu ad aiutare. Mia l’ha reso Dio perché lui le ha detto di fare così, e lei se l’è lasciato dire: cos’altro c’è da fare, di fronte a qualcuno che è troppo fragile per salvarsi da solo?


Bisogna liberarlo dalla trappola, medicargli le ferite e fargli vedere quanto di bello c’è nel mondo, addestrarlo a capire che non c’è alcuna necessità di mordere.


Ma se, una volta avvicinatici alla trappola, scoprissimo che era tutto uno scherzo di cattivo gusto? Se, d’improvviso, si ribaltassero i ruoli e fosse la nostra, la zampa nella morsa di metallo, e la persona che pensavamo di star soccorrendo sembrasse ridere di noi mentre sanguiniamo a morte?


Ruben (che, come spesso mi capita con i “cattivi” della storia, è il personaggio che più mi ha affascinata perché la sua oscurità, come sempre capita con i “cattivi” scritti bene, parla un po’ anche di me) lo conosciamo solo attraverso le parole di Mia: è morto, Ruben.  Si è suicidato e ha dato la colpa a lei, che l’aveva lasciato, e ora la perseguita come un fantasma, con ricordi che, incessantemente, le si parano davanti agli occhi a tradimento: Ruben che gode nel rovinare i momenti felici, Ruben che la vuole triste quanto lui, poi Ruben che decide che non la vuole più, l’odio che di Ruben è il motore, Ruben che le fa paura, la tristezza insanabile di Ruben, Ruben che fa paura anche ai suoi amici, Ruben che stringe tra le mani dei pezzi di vetro e si ferisce, Ruben morto nella vasca da bagno e quella dilaniante domanda, che martella sul cervello senza sosta:


“Qual è il momento che avrei dovuto cambiare, per impedirlo?”

Ciò che mi ha colpito davvero di Mantide è che è intriso di senso di colpa, dolore e perdita, ma manca quasi completamente dell’amore che dovrebbe giustificare la ferocia dei suddetti sentimenti. Viste le premesse, un po’ di amore me lo aspettavo — seppur compromesso e con tutte le contraddizioni che un rapporto non benefico comporta — ma, nelle rievocazioni di Mia, di affetto reale ho percepito poco o niente.




I momenti di tenerezza, in Mantide, sembrano pro-forma: difficilmente contaminano tutto il resto come, invece, fanno l’odio, la disperazione e il trauma. Sembra che, da Ruben, Mia abbia imparato tutto: l’autodistruzione, l’apatia, l’astio. Non l’amore, però.

“Aveva già deciso che mi avrebbe amato”, dice della prima volta che lei e Ruben si sono visti.


Ecco: in Mantide l’amore è pre-stabilito, è inventato, è messo in scena come uno spettacolo ma, proprio come a teatro, gli attori corrono in camerino a struccarsi una volta calato il sipario.


Mantide è una storia di trappole, questo sì. E quello che ho apprezzato è che Rita concede a Mia una rivelazione fondamentale: era anche lei a tenere in trappola Ruben, non solo il contrario. E Mia ha passato così tanto tempo a intrappolare Ruben e a costringersi intrappolata nei “fai così”, “di’ così”, “pensa così”, “sii così” di Ruben — anche dopo la sua morte, e proprio per ripagarlo, in qualche modo, della vita che pensa di avergli tolto — che ecco che anche una riflessione fugace diventa una potentissima rivendicazione di autonomia di pensiero e azione.


Una libertà che sembrava irraggiungibile. Un nulla osta per guardare i punti di sutura intorno al suo polso, accettarli e iniziare a capire da dove cominciare per andare avanti.


“I made you God ‘cause it was all that I knew how to do, but I don’t belong to anyone.”

Perché a volte la salvezza non è l’amore — ma il coraggio di allontanarsi dalla trappola che avete costruito insieme.

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